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TEATRO - Interpreti del nostro tempo

Silvia Pasello, e il lungo viaggio dell'attore verso l'uomo
Intervista esclusiva ad una delle più grandi attrici teatrali contemporanee, che anche per quest'anno sarà membro di giuria al Concorso Italia Teatro del Festival Women in Art. Un'occasione per conoscere un po' più da vicino il suo percorso artistico, dalle prime esperienze negli anni '70, a interprete di punta del Centro per la Ricerca Teatrale di Pontedera, dai capolavori di Thierry Salmon, al Macbeth di Carmelo Bene, che le valsero tre premi Ubu come miglior attrice.

NOVA MILANESE - "Non c'è forma più adatta di quella dello studio per affrontare questo atto unico di Cechov. Questa piccola opera, nella sua apparente semplicità, contiene una sfida potente per l'attore.
Lo costringe a fare i conti con le questioni essenziali del suo mestiere, e in questo procedere, esattamente come accade al protagonista della nostra storia, comincia a scoprire la sua propria condizione.
Un attore si ritrova da solo, di notte, nel teatro deserto. Si è addormentato in camerino dopo lo spettacolo.
La solitudine e lo smarrimento di fronte a quel buco nero lo spaventano, ma allo stesso tempo egli percepisce che paradossalmente è proprio in questo baratro che si trova la sorgente della creazione. Dice il nostro attore: "E' semplice pensare che all'attore venga così, come servito su un vassoio, ma non è così facile, non è facile...".
E che cosa non è facile? In che cosa consiste il lavoro di un attore?
Con queste domande ho intrapreso il mio viaggio, con un grande desiderio di incontrare in me qualche risposta sincera... E vi assicuro è molto difficile". (Silvia Pasello)

Credi sia possibile parlare dei contenuti di questo studio, L'angelo dell'inverno, ispirato a "Il canto del cigno" di A. Cechov, utilizzando un linguaggio che non sia quello teatrale?
SP:
Il contenuto di questo studio riguarda la "condizione" dell'attore. Potrei certamente parlarne fuori dalla scena, ma la possibilità dell'accadimento appartiene al linguaggio. "Da interiore a interiore", diceva Carmelo Bene. Il mentale non c'entra.
La possibilità di questo particolare incontro tra viventi non può prescindere dal teatro: è il teatro stesso, aldilà della rappresentazione.

Qual è la tua origine artistica e come si è evoluta nel tempo?
SP:
La mia primissima formazione è avvenuta negli anni settanta, in un periodo piuttosto vitale per il teatro. Ho cominciato all'interno del teatro di ricerca, in quello che all'epoca si chiamava Teatro di Gruppo e che poneva al centro del lavoro la figura dell'attore con una particolare forma di allenamento fisico e vocale.
Nel mio percorso formativo poi ho incontrato molte forme ed esperienze teatrali di diverse tradizioni ed ispirazioni, cosa che mi ha permesso di procedere in apertura, senza identificarmi con una particolare estetica teatrale. Ho approfittato di tutto.
Mi ritengo piuttosto fortunata per avere attraversato anni di grandissimo fermento teatrale.

Cosa significa "teatro di ricerca" oggi?
SP:
La ricerca è una postura. Se l'uomo/donna che pratica il teatro possiede questa postura la ricerca è connaturata. Ma credo che oggi ci sia una grande confusione. Il teatro di ricerca è diventata un'etichetta come un'altra. La ricerca non si può identificare con una forma: non è un'estetica, ma un atteggiamento nei confronti del lavoro.
C'è stato un tempo in cui questo atteggiamento produceva forme riconoscibili, aderenti e necessarie, ma poi la forma ha preso il sopravvento. E poi, così come per molti altri ambiti della ricerca, quella teatrale non è sostenuta, non le si riconosce valore, perciò chi continua ad agire in questa direzione lo fa con grande difficoltà e piuttosto nell'ombra.

Hai collaborato a lungo con il Centro Teatrale di Pontedera. Cosa rappresenta quel luogo per te?
SP:
Pontedera è un luogo importante per me, anche se la mia relazione con questo teatro è stata piuttosto turbolenta.
Nel tempo è molto cambiata, oggi ne sono più distante ad esempio, ma credo di poter dire che è il posto dove ho fatto alcuni incontri determinanti.
D'altra parte per molto tempo è stata un luogo di accadimenti straordinari.

Alcuni artisti si definiscono "cani sciolti". Ritieni sia necessario per chi fa questo mestiere identificarsi con un gruppo o appartenere ad una compagnia?
SP:
Questo è il paradosso di chi fa questo mestiere. Il bisogno di appartenenza, il desiderio di identità si scontrano con la costitutiva solitudine dell'esperienza creativa. A volte questo ci appare insostenibile e perciò si è spinti a cercare compagnia. Ma questa solitudine è appunto costitutiva, fa parte della condizione.
Io credo che il teatro sia un incontro di solitari.

Che tipo d'amore è quello per il teatro?
SP:
Ecco, credo che l'amore per il teatro assomigli all'amore senza oggetto, all'amore inteso come forza capace di trasformare.

Silvia Pasello è interprete, ma anche regista. Quali sono i desideri e le necessità che sottendono i diversi ruoli?
SP:
Sono diverse le ragioni che mi hanno spinta a frequentare il ruolo di regista. Per quanto riguarda le regie di monologhi di cui ero anche interprete, credo ci fosse il desiderio e la necessità di portare fino in fondo uno studio d'attrice.
Per quanto riguarda altre regie, in cui rimanevo fuori dalla scena, spesso si è trattato della evoluzione di un rapporto pedagogico.
Alla maturità degli allievi ha corrisposto la trasformazione del mio ruolo. In realtà, io non mi definisco una regista, perlomeno non una regista-critica.
Per me è un modo di andare in scena, senza andarci.

Hai mai dovuto abbandonare un lavoro già iniziato?
SP:
Sì, più di una volta, ma è molto complessa la faccenda per parlarne brevemente. Posso dire però che ha a che fare con la fragilità.

C'è qualcosa che chiedi direttamente o indirettamente a chi lavora con te?
SP:
Credo di sì. Penso di chiedere di assumersi la responsabilità di essere lì.

Ha senso per te parlare di "maturità artistica"?
SP:
Penso che si possa individuare un momento in cui ci si comincia ad arrendere a questo mestiere. Un momento in cui la spinta narcisistica si affievolisce e ci si libera dal dovere della prestazione. Forse, in questo senso, si può parlare di maturità.

Quando si può dire che un attore invecchia? E quando invece uno spettacolo invecchia? In quanto processo di ricerca, credi si possa mettere la parola "fine"?
SP:
Se per vecchiaia ci si riferisce al decadimento che precede la morte, si può parlare forse di un processo di trasformazione.
Uno spettacolo muore nella sua forma, lo spirito abbandona la forma, sì, ma può portare ad una forma nuova, perché ne ha bisogno. Non mi pare che la ricerca, se è autentica, possa avere fine. Ma questo è davvero insondabile, perché i processi non sono necessariamente visibili.

Da dove parte la tua ricerca su un personaggio?
SP:
Parte da me. Io non credo al personaggio come ad un altro di cui rivestire i panni. Lo vedo piuttosto come una funzione risvegliatrice.
Il personaggio è la prova che io non conosco niente di me. Mi interroga, mi costringe a pormi delle domande su chi io sia. E in questo procedere, che non giunge mai ad una forma chiusa, mi si possono rivelare aspetti sconosciuti del mio essere.

E' una ricerca che allontana dalla realtà?
SP:
Direi proprio il contrario.

Allora chi è L'Angelo dell'inverno? E' Silvia Pasello?
SP:
Direi piuttosto che è qualcuno o qualcosa che Silvia Pasello ha incontrato ad un certo punto del suo percorso. Forse questo ha a che fare con la tua domanda sulla vecchiaia di un attore.
Potrei dire che un attore invecchia quando incontra l'Angelo dell'inverno, uno spirito di diversa consapevolezza, una vera benedizione.

Voce e corpo nel tuo lavoro, hanno lo stesso peso, vanno di pari passo?
SP:
Direi di sì, sono i miei strumenti. Sono sempre coinvolti entrambi nel veicolare il pensiero. Poi, dipende dal lavoro specifico che affronto privilegiare la visibilità dell'uno o dell'altro. Ma in ogni caso è impossibile separarli.

Ti piace lavorare al di fuori dello spazio scenico "convenzionale"?
SP:
Ho lavorato quasi sempre al di fuori dello spazio scenico convenzionale, tanto che per me la scena "classica" era del tutto non-convenzionale. Ma a parte la battuta, per quanto riguarda la mia esperienza, non ritengo che lo spazio sia convenzionale in sé, ma è convenzionale il modo in cui lo si usa.
Lo spazio scenico è uno degli elementi che stabilisce la relazione con lo spettatore e quindi il modo di trattarlo ha a che fare con ciò che ci si propone al riguardo.
Quando facemmo A. da Agatha con Thierry Salmon, scegliemmo di lavorare in un teatro all'italiana. Il pubblico avrebbe occupato soltanto i palchetti lasciando vuota la platea. L'atmosfera di quello spettacolo era di grande intimità.
Il pubblico doveva percepirsi presente all'azione ma come se guardasse dal buco della serratura. Ed effettivamente quello spazio, trattato a quel modo rendeva efficace la proposta.

Prendo questa frase da Il Viceconsole di M. Duras "Bisogna insistere perché alla fine ciò che oggi disgusta domani attragga". E' sempre necessario insistere?
SP:
Mi sembra che questo abbia a che fare con la certezza interiore. Qualcosa che in me è solido e al quale non sono disposto a rinunciare a nessun costo, qualcosa che paradossalmente non mi riguarda neanche, ma al quale in qualche modo riconosco un grande valore. In questo caso l'insistenza è forse inevitabile.

Quali sono secondo te tre requisiti necessari per fare l'attrice oggi?
SP:
Perdita dell'illusione, coraggio e ironia.

Hai mai dovuto rinunciare a qualche occasione che ancora rimpiangi?
SP:
Penso di avere sempre avuto la tendenza ad andare verso le esperienze che sentivo importanti. Con molti ripensamenti anche. Naturalmente l'avere scelto di fare questo mestiere ha significato orientare fortemente la mia vita. In questo senso, nel senso della vita intendo, ci sono moltissime occasioni a cui ho rinunciato, ma senza rimpianto. Oggi, perlomeno, mi sembra che anche queste mancanze facciano parte del cammino.

Hai collaborato con tanti professionisti stranieri, non hai mai pensato di stabilirti all'estero?
SP:
Ho lavorato spesso all'estero, non mi ci sono mai trasferita. In Brasile ho lavorato come attrice e come regista. In Europa ho girato con diversi spettacoli. Non mi è accaduto di dover espatriare per seguire il mio lavoro, è un'occasione che non mi si è presentata.

Virgilio Sieni ti ha diretta insieme a Luisa, la tua gemella, anche lei attrice e regista, in Due lupi, uno spettacolo tratto da Il grande quaderno di Agota Kristof (prima parte della Trilogia della Città di K). Sieni scrive: "Luisa e Silvia hanno lavorato sull'idea di regalarsi alla forma dell'unisono, allo scopo di far coincidere la voce e il movimento secondo andature di riconoscimento fatte di scarti e dislessie".
Ti domando: è stato come lavorare allo specchio, inseguendo i momenti in cui, come in un gioco di bambino, si prova a fregarlo lo specchio, nel tentativo di anticipare il proprio gesto sul riflesso? E, al di là del legame genetico di Silvia e Luisa che comunque ha un peso, facendo questo tipo di lavoro così particolare, in cui cerchi, provi e riprovi i respiri e gli sguardi con i medesimi tempi, si evidenziano di più le differenze o le somiglianze con l'essere umano che si ha accanto?
SP:
La condizione genetica non è qualcosa che si possa mettere da parte. E' un elemento inalienabile; non ci si può far niente ma bisogna farci i conti.
Nel nostro caso l'unisono perfetto si produce esattamente nel momento in cui non lo cerchiamo, in cui non lo trattiamo come un esercizio; si produce quando ne prendiamo atto.
Accade. Naturalmente c'è stato un lavoro preparatorio, anche piuttosto difficile, che però non attingeva al lavoro con lo specchio. Aveva più a che fare con l'ascolto che con lo sguardo. L'accadimento dell'unisono è di un'altra natura. Ha a che vedere con l'abbandono.
La "ricerca" dell'unisono mette in evidenza ovviamente le differenze. Il bisogno di differenziazione.

Hai interpretato Maria Maddalena nello spettacolo di Valentina Capone, tratto dal racconto Maria Maddalena o della salvezza di Marguerite Yourcenar. Che sentimenti ha ridestato in te questa donna?
SP:
Stiamo parlando della Maddalena della Yourcenar. Una donna paralizzata dal dolore della perdita, che conclude la sua invocazione a Dio, ricordandogli di averla salvata dalla felicità. Che cosa ha risvegliato in me? Senz'altro la memoria della perdita dell'illusione, che è indubbiamente una delle cose più difficili da accettare. La perdita dell'innocenza.

Mi dai una tua personale definizione di femminile?
SP:
Quando il femminile è un elemento puro è una grande forza. Come gli elementi naturali. Oggi è una risorsa poco sfruttata.

Hai accettato per il secondo anno consecutivo di far parte della Giuria del Concorso Italia Teatro del Festival Women in Art.
Perché?
SP:
Credo che sia per capire meglio cosa significa esercitare il giudizio, disciplinarlo. Noi giudichiamo in continuazione, senza nemmeno rendercene conto.
L'occasione di porre l'attenzione in modo responsabile su questa funzione mi interessa molto. Mi interessa l'incontro con le persone che si trovano in questa Giuria.
Mi sembra che ci sia uno sforzo comune per avere uno sguardo pulito. Cosa significa giudicare un'opera d'arte? A volte mi sembra quasi paradossale.

Da cosa riconosco se uno spettacolo è "di qualità"?
SP:
Posso dirti qualcosa a proposito della mia esperienza. Ci sono alcune cose che mi accadono come spettatrice. Molte hanno a che fare con lo sguardo.
In genere la qualità del lavoro a cui assisto provoca in me un cambiamento dello sguardo. Dal guardare passo al vedere.
Naturalmente sono processi soggettivi, ma per quanto mi riguarda sono strettamente legati a quello che sta accadendo in scena. Una cosa curiosa è lo spostamento sulla poltrona. Mi succede di muovermi inavvertitamente in relazione a ciò a cui assisto, in genere sono spostamenti in avanti, verso la cosa... quando accade...

C'è un regista o un compagno con il quale sul lavoro tu abbia condiviso appieno un'esperienza "sul femminile"?
SP:
Sì. Per me è molto chiaro: Thierry Salmon. L'identità sessuale era uno dei temi centrali della sua ricerca. Per questo il suo interrogarsi sul femminile era spinto fino al limite, anche del conflitto. Credo poi che nel lavoro svolto insieme si sia sfatata una certa retorica a proposito della questione.

Verso quale orizzonte è rivolto il tuo sguardo oggi?
SP:
In questo momento sento il bisogno di condividere le esperienze fatte, di confrontarle, di interrogarmi su quali forme il linguaggio teatrale può assumere per continuare ad essere vitale. E' un bisogno di apertura. E' un orizzonte aperto.

Grazie Silvia!


In alto, Silvia Pasello in "L'Angelo dell'Inverno", foto Paolo Foti

Gabriella Foletto
(11 aprile 2012)



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