Letteratura
LETTERATURA
Le lupe di Sernovodsk
Un reportage di straordinaria forza evocativa ci conduce nei sentieri impervi della Cecenia, piccola
patria nel Caucaso del nord, da sempre emblema di oscure minacce e apocalittiche sventure, abitata da un minuscolo popolo
montanaro che per tre secoli ha aspirato all'indipendenza, contro ogni realismo. E' l'ultimo libro di Irena Brezná, una
delle più importanti scrittrici contemporanee, edito da Keller Editore e tradotto dal tedesco da Alice Rampinelli,
che abbiamo intervistato per saperne di più sull'opera e sulla particolare scrittura dell'autrice di Bratislava.
BRESSO - Irena Brezná, scrittrice e giornalista, nasce il 26 febbraio del 1950 a Bratislava, in Slovacchia.
Emigrò con la madre nel 1968 in Svizzera, dove attualmente vive e lavora, in seguito all'invasione delle truppe
sovietiche. Dopo gli studi universitari inizia negli anni Ottanta l'attività di pubblicista. Per un giornale
svizzero segue sul campo le vicende del conflitto ceceno-russo a partire dal 1995, un anno dopo l'esplosione
della prima guerra che si concluse nel 1996 con la ritirata dei soldati russi di Eltsin e la dichiarazione d'indipendenza
della Cecenia, con la nascente Repubblica di Ichkeria. Indipendenza che durò solo tre anni perché nel 1999 le truppe russe,
questa volta sotto l'egida di Putin, invasero di nuovo la Cecenia e nel 2000 ristabilirono il controllo sull'intero territorio.
I disordini continuarono, tra guerriglie, repressioni e attentati terroristici fino al 2009, quando il governo russo dichiarò
terminata la lotta al terrorismo ceceno. Dal 2000 diversi uomini, tutti insediati da Putin, si succedettero alla presidenza
della Cecenia, fino all'attuale Ramzan Kadyrov.
Del conflitto ceceno-russo è giunto ben poco al resto del mondo, se non qualche eclatante attentato terroristico e
informazioni ufficiali dalla discutibile attendibilità. Le lupe di Sernovodsk (2016, Keller Editore, 224 pagine,
traduzione dal tedesco a cura di Alice Rampinelli), ultima fatica della scrittrice di Bratislava, rovescia completamente
l'ufficialità dei fatti, raccontando una verità nascosta, vissuta in prima persona.
Non sappiamo cosa abbia spinto Irena Brezná in Cecenia, forse una di quelle pulsioni dettate dall'inconscio per riequilibrare
dissesti interiori arcaici, come quello di cercare qualcosa che andasse a colmare il vuoto creato dall'esilio di cui fu vittima.
Prima ancora del dovere di cronaca che impone il ruolo di inviato di guerra, pare infatti agire in lei la rivendicazione di
un diritto tanto inalienabile quanto necessario per l'uomo: la propria identità. Ma una volta sul campo, Irena si rende ben
presto conto di come questa identità, nella catastrofe, sia indefinita, comprende quanto vana sia la pretesa, solo umana, di
nominare tutte le cose del mondo. Ci sono spazi che rimangono inaccessibili alla parola: uno di questi è la distruzione e
l'orrore che la guerra porta con sé. Siamo alle soglie della metafisica, tra l'essere e il non essere, onde l'esigenza di
trovare un linguaggio adeguato per descrivere quello che allo stesso tempo è e non è, indispensabile per la rinascita e per
l'identità di un intero popolo.
In un contesto in cui lo stato dell'essere non è definibile, necessariamente prolifera l'aberrazione, raggiungendo qui
limiti estremi, quali la contaminazione batteriologica e chimica e addirittura la necrofilia. Ma il mondo non sa, dunque
si apre qui la denuncia della strumentalizzazione degli accadimenti, della mistificazione della realtà, del nascondimento
dei fatti. Il mondo sa che i Ceceni sono un popolo di terroristi, e, in quanto tali, vanno sterminati. Taciuti sono gli orrori,
per usare un eufemismo, di cui sono stati vittime.
Eppure, nella devastazione più totale - "Qui la morte è ovunque, nella lingua delle persone, nei loro sguardi, nel pallore
delle guance smunte, nei sussulti involontari dei bambini" - strenuo resiste l'impulso alla vita - "Lunghi cappotti di
pelle nera arrivati dalla Turchia avvolgono le giovani cecene, la vita messa in risalto, il trucco steso ad arte".
Sono proprio le donne cecene la via attraverso cui la vita può sconfiggere la morte di questi luoghi.
E non poteva essere diversamente: la donna, emblema della vita, colei che dal varco del suo ventre porta alla luce
una nuova esistenza, non può essere foriera di morte. "La resistenza non violenta fatta principalmente dalle donne è
orientata alla vita".
Donne in cui vorrebbe risolversi anche l'identità della Brezná, perché modelli ideali da perseguire, perché coraggiose
oppositrici ad un sistema di distruzione efferato, perché tenaci difenditrici della vita che portarono in grembo: Lupe, appunto.
Spesso mi sono chiesto, ascoltando le cronache in TV, quale fosse il limite di aberrazione che possa raggiungere l'uomo. Ebbene,
questo libro mi ha dato la risposta: non esiste. L'orrore che siamo capaci di perpetrare supera i confini dell'immaginabile.
Accanto a pagine di elevata drammaticità, nelle quali l'emotività prorompe, spingendoti a vivere il dolore e la disperazione
altrui, si rivela sempre la necessità di comprendere il dramma delle vittime e di entrare in una sorta di convivenza con loro,
quasi che la vicinanza possa lenire il dolore. Ma il libro non è solo dramma, si spinge sovente verso la luce, verso il dopo,
verso la vita che vincerà la morte.
Alice Rampinelli ha avuto il merito di farci pervenire le tragiche testimonianze descritte in queste pagine attraverso
una traduzione dal tedesco ricca di atmosfere, sfumature psicologiche, descrizioni ambientali a volte prive di colore, quasi
una metafora del mondo interiore dei personaggi o del contesto che li circonda, a volte a tinte forti. L'abbiamo incontrata per
saperne di più sull'impatto che il libro ha avuto su di lei, e per farle alcune domande sulla traduzione.
PLB: Cosa ti ha colpito innanzitutto di questo romanzo?
Indubbiamente la sua forza espressiva. In tutti i reportage della raccolta, Irena Brezná racconta il terrore
senza distogliere lo sguardo: morte, tortura, abusi, niente sfugge alla sua riflessione, capace di affrontare anche l'inconcepibile con un
linguaggio da un lato evocativo, dall'altro estremamente crudo. Alcuni passi risultano difficili da digerire perché mettono alla prova le
nostre coscienze, ma proprio per questo, perché ci scuotono dal torpore in cui siamo scivolati, credo siano straordinari.
PLB: Quanto è importante per un traduttore avere un certo feeling col materiale da tradurre?
Credo sia indispensabile. Nel campo della traduzione editoriale si lavora a un testo su più livelli: occorre occuparsi del concetto
trasmesso senza snaturare il corpo sonoro e la forma scelta dall'autore. Questo da un lato permette una conoscenza più profonda del testo rispetto
al lettore finale, ma dall'altro prevede processi decisionali lunghi e talvolta complessi. A volte un passaggio, una frase, un'espressione,
ti tormentano per giorni, perché sai che la tua resa potrebbe non rendere giustizia all'originale. E senza una vera passione per i temi
trattati e per l'opera nel suo complesso, questo processo sarebbe impensabile.
PLB: Molti sono i passaggi toccanti di queste cronache che mettono in luce la bellezza e l'efficacia della parola,
come per esempio: "Quando i Ceceni parlano della morte, non allontanano i bambini. Nella loro lingua soffia il puzzo della decomposizione, che
per i bambini è diventato il profumo dell'infanzia". O ancora: "L'amore materno è immortale, anche senza testa resiste a tutto, è un dogma".
Ecco come sei riuscita a restituire in italiano questa efficacia. Ma puoi farci un esempio mettendo in parallelo il testo in tedesco e le scelte
che necessariamente hai dovuto prendere per tradurlo?
Riferendosi al suo arrivo in Svizzera e all'apprendimento del tedesco, lingua di lavoro e di vita ormai per lei, la Brezná scrive:
"E' una ricchezza, quella che la giovane donna ha acquisito nella terra straniera - uno strumento e al contempo un'arma." Per rispondere
alla domanda, mi sento di fare un'importante premessa: la lingua di Irena Brezná non è un tedesco standard, così come credo che l'italiano
da me usato non verrà percepito dai lettori come un italiano standard. Nelle parole dell'autrice ci sono spesso ripetizioni,
metafore, termini molto precisi tratti da campi come la medicina, la psicologia, la religione.
Penso, ad esempio, a parole come Menschwerdung, usata in ambito religioso nel significato di "incarnazione", ma che indica qui l'azione
di crescere, di diventare uomo; o Mutterhöhlenmentalität, una delle tanto comuni parole composte tedesche, formata da "madre", "caverna" e
"mentalità", a cavallo tra psicologia e antropologia e che la Brezná utilizza per indicare l'istinto materno più primordiale, atavico.
Nelle mani dell'autrice la lingua diventa davvero uno strumento da dissezione per esaminare ciò che vede, e un'arma intrisa di sarcasmo
per accusare gli autori delle violenze di cui è testimone. Una lingua complicata da rendere. Nella mia traduzione ho cercato il più possibile
di non discostarmi da questo stile, ricco, evocativo, allusivo e al contempo diretto, duro, brutale. Ho dovuto, come è inevitabile in
ogni traduzione, scendere a compromessi, specialmente quando la scelta di termini troppo insoliti nel testo italiano avrebbe pregiudicato
la comprensione del messaggio. Ahimè, in traduzione un certo "residuo" è inevitabile, spero però di averlo ridotto al minimo.
PLB: E' ben noto che una traduzione rende difficilmente l'originale perché mette a confronto due paradigmi culturali e due
mondi concettuali differenti. Quanto è stato difficile trasporre tutti i significati della lingua tedesca in quella italiana? Senti di
esserci riuscita completamente?
Ti ringrazio della domanda, perché capita poche volte di porre l'accento sulla difficoltà di fare da ponte tra due culture, che è poi
il succo del lavoro di un traduttore. Tradurre un'autrice come la Brezná, tedesca d'adozione ma non d'origine, è estremamente complicato, dato
che le culture qui sono tre: quella tedesca e quella italiana, ma anche quella slava delle sue radici. Quando per di più si parla di un'autrice
che ha ricevuto diversi premi letterari, ogni traduttore procederebbe con i piedi di piombo prima di inserire anche solo una virgola, dove
nell'originale non compare.
Certo, un buon traduttore è per definizione insoddisfatto, avendo sempre un residuo traduttivo con cui venire a patti, ma nel complesso
sento di non rimproverarmi nulla. So di aver dato il massimo nella traduzione di questo testo.
PLB: Immagino che la professione di traduttore implichi di entrare spesso nella mente dell'autore, di capire il senso oltre le parole, di coglierne emozioni e sentimenti; in sostanza di entrare in empatia con lo scrittore. E' successo anche a te? In questo caso, hai conosciuto l'autrice? Ti sei consultata con lei per certi passaggi?
Sì, in diversi passaggi del testo mi sono trovata a camminare fianco a fianco dell'autrice per i villaggi bombardati della Cecenia.
Avvertivo chiaramente il suo sgomento, la sua costernazione di fronte alle violenze di guerra. L'ho conosciuta, prima ancora che di persona,
dalle parole che ha usato, dalle espressioni a cui ha fatto ricorso. Poi ho avuto con lei uno scambio di mail, nel quale mi ha aiutata a chiarire
alcuni passaggi criptici del testo originale. Ho anche avuto la fortuna di conoscerla dal vivo a Chiasso, in occasione della presentazione del
libro al pubblico svizzero. Una persona davvero squisita, umile e disponibile: capita davvero di rado di incontrare autori così alla mano,
considerando il prestigioso ruolo che occupa nel pantheon della letteratura contemporanea...
PLB: Durante il processo di traduzione, e nell'apprendere le gesta delle eroine cecene, ti sei mai sentita una di loro, o, come la Brezná, avresti voluto essere una di loro?
Ho ammirato profondamente le donne cecene, vittime da un lato dei soprusi di una società patriarcale e dall'altro di una guerra di annientamento.
E ciò nonostante mai passive: le eroine che incontriamo nei reportage sono figure volitive, dignitose, forti, e a fronte di stupri, discriminazioni
e costanti minacce, cercano di resistere. Di riscattarsi. Di sopravvivere. Cosa che vale, del resto, per l'intero popolo ceceno. Non me
la sento di dichiararmi una di loro, ma sono indubbiamente dalla loro parte e mi ritengo orgogliosa del fatto che la loro sofferenza
non sia stata dimenticata e, in minima parte grazie anche al mio lavoro, sia resa nota al pubblico italiano.
PLB: Ti è mai capitato di farti coinvolgere emotivamente dai fatti tragici e dall'orrore testimoniato in queste pagine?
Assolutamente sì! Ho l'abitudine di rivedere le traduzioni con un'ultima lettura a voce alta, in cui presto attenzione ad aspetti
come corpo sonoro, ritmo, cadenza delle frasi, e devo confessare che più di una volta, nei passaggi più drammatici, ho dovuto interrompermi
con un groppo in gola: l'emozione degli eventi descritti aveva il sopravvento. Siamo abituati a leggere i testi a mente, a scivolare con gli
occhi sui passaggi più critici, andando magari a cercare i punti più salienti o gli elementi che ci interessano di più. Con la lettura a
voce alta, invece, si è travolti dalle parole come da una corrente impetuosa a cui non si può scampare. Con un testo come questo, è
impossibile restare indifferenti.
Grazie Alice.
In alto, copertina del libro nell'edizione italiana e foto dell'autrice Irena Brezná.
Pietro Luciano Belcastro
(30 settembre 2016)
Alcuni diritti riservati
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