Cinema
Cinema - altri mondi
Dal chador alla cinepresa
Patria di contraddizioni, in cui convivono tradizione e modernità, integralismo religioso e desiderio di libertà, l'Iran è stato mirabilmente
raccontato da grandi cineaste: da Forough Farrokhzad, a Rakhshan Bani-Etemad; da Samira Makhmalbaf, a Marjane Satrapi, che con il suo Persepolis, in cui narra
l'infanzia in Iran e una visione personale della Rivoluzione Islamica, riceve una nomination agli Oscar e vince il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes.
RHO - Il primo oggetto che associamo ad una donna iraniana non è certo la cinepresa, semmai un funereo chador diventato il simbolo della legge islamica
che dal 1979 governa il Paese, agli onori della cronaca per le infuocate affermazioni di Ahmadinejad.
L'Iran però è una patria di contraddizioni, in cui convivono tradizione e modernità, integralismo religioso e desiderio di libertà.
Ce l'ha dimostrato il vincitore dell'Oscar come Miglior Film Straniero Una separazione di Farhadi, a conferma del ruolo che le donne hanno da
sempre assunto nella fiorente - nonostante le repressioni - cinematografia nazionale.
Anche se i primi lavori di gran parte del cinema arabo e mediorientale raggiungono la ribalta dei Festival internazionali solo a fine anni '80, la storia della
cinematografia iraniana è di poco più giovane di quella europea: è il 1900 quando il quinto Shah della dinastia Qajar, desideroso di documentare la vita
della famiglia reale, compra una cinepresa al suo ritrattista ufficiale Mirza Ibrhim Khan Akkas-Bashi.
Il primo lungometraggio vede la luce all'inizio degli anni '30 ad opera di Ovanes Ohanian, un armeno che aveva studiato cinema all'Accademia di Mosca
e aveva fondato nel 1925 la prima scuola di cinema del Paese.
Negli anni '50 si sviluppa un'industria cinematografica nazionale, ma è difficile per i registi muoversi liberamente con una commissione di controllo e censura che
sancisce che non si devono contraddire i fondamenti della religione o diffondere idee sovversive contro l'Islam e la religione sciita.
Tuttavia negli anni '60 si inizia a formalizzare una scuola nazionale con distinguibili tratti di linguaggio cinematografico.
Tra i precursori di questa "Nouvelle Vague iraniana" c'è la poetessa iconoclasta Forough Farrokhzad che, non paga di aver sfidato le autorità religiose e
i letterati conservatori rappresentando le problematiche della situazione femminile nelle sue opere letterarie, porta sul grande schermo la situazione dei
lebbrosi iraniani nel suo documentario La casa è nera, considerato il film più significativo dei primi anni '60 e fonte di influenza anche sul cinema nazionale contemporaneo.
Con la Rivoluzione Islamica del 1979 molti registi di questa corrente decidono di trasferirsi all'estero, mentre quelli che restano sono spinti dalla forte
censura - esercitata sia dal nuovo governo, sia dalle autorità religiose - a cercare nuove vie di espressione, che vanno dalla visione neorealistica ad una chiave
più sperimentale e poetica.
Sono molte le donne che si affacciano al mondo della settima arte in questa "seconda Nouvelle Vague": una conferma della tenacia con cui cercano
di imporsi e lottare contro la feroce dittatura religiosa che le opprime.
La prima regista post-rivoluzionaria è Rakhshan Bani-Etemad (debutta nel 1986 con Fuori limiti), che si affida spesso a protagoniste femminili per dipingere
importanti tematiche sociali.
Nel 1995 con La valle blu vince il Leopardo di Bronzo a Locarno e nel 2009 con Noi siamo la metà della popolazione iraniana sfida il regime con una testimonianza
politica realizzata durante l'ultima campagna elettorale per le presidenziali che dà voce al movimento femminista.
Il primato come più giovane protagonista della selezione ufficiale del Festival di Cannes va a Samira Makhmalbaf, figlia d'arte che debutta a soli 17 anni con La mela: il
film, ispirato ad una storia vera, dimostra l'attenzione alle tematiche sociali della giovane regista e prende parte a più di 100 festival internazionali.
Samira si aggiudica successivamente per ben due volte il Gran Premio della Giuria a Cannes, con Lavagne e Alle cinque della sera, entrambi accorate denunce
della degradata condizione femminile nel mondo islamico.
La potenza della cultura iraniana deflagra anche oltre i confini nazionali ed è così che l'esule naturalizzata francese Marjane Satrapi porta al cinema la
sua graphic novel Persepolis, trasformandola con l'aiuto di Vincent Paronnaud in un innovativo film d'animazione in cui narra la sua infanzia in Iran e
una sua personale visione della Rivoluzione Islamica.
La potenza dell'opera è tale da ricevere una nomination agli Oscar e vincere il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes del 2007, che l'autrice dedica a
tutti i suoi connazionali.
La nostalgia per il suo Paese emerge da ogni immagine ed è la stessa che ha guidato la Satrapi, di nuovo in coppia con Paronnaud, ad adattare per il
grande schermo - questa volta con attori in carne ed ossa - la storia del suonatore di tar Nasser Ali Khan, protagonista di Pollo alle prugne, un'allegoria della
distruzione operata dal regime khomeinista alla splendida nazione che fu la Persia. Un film che avremo modo di ammirare nei cinema dal 6 aprile.
Un doveroso accenno va anche alla bravura delle tante apprezzate attrici iraniane, quelle protagoniste che danno spessore attraverso la loro interpretazione al
pluripremiato Una separazione.
Il neorealismo all'iraniana di Farhadi fa uso di una regia asciutta che segue i personaggi nelle loro azioni e ne misura da vicino le reazioni.
Pur restando lontano da ogni accenno politico, il film si pone come una descrizione della società iraniana in tutte le sue contraddizioni, soprattutto quelle
che coinvolgono il ruolo femminile, a cui il premio Oscar ha regalato nuova visibilità internazionale.
Speriamo che questa vittoria sia occasione di riscoperta di una cinematografia poco nota al grande pubblico, ma molto stimata dalla critica.
In alto, immagine delle rovine di Persepoli, Iran
Roberta Tocchio
(15 marzo 2012)
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