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WIA 2011 TEATRO - CONCORSO ITALIA

Il premio La Vela d'Oro 2011 goes to.?
Da mercoledì 21 a sabato 24 settembre alle ore 21 al Centro Civico S. Pertini di Bresso sono andate in scena le opere finaliste del Concorso Italia Teatro: "La bambina con la pelliccia - di anoressia si può guarire" con Federica Bognetti; "Ragazza seria conoscerebbe uomo solo max 70enne" con Carla Carucci; "Una giornata molto, molto particolare - kammerspiel psiconautico" con Emanuela Filippelli e "Fabula Alcesti" con Simona Arrighi, Alessandra Bedino e Sandra Garuglieri. Spettacoli di elevata qualità artistica che si sono distinti per intensità, grazia, forza ed ironia nell'affrontare il femminile. Sei attrici centrate e determinate, mai invisibili. Diversi i generi e i linguaggi utilizzati: teatro d'attore sì, ma anche danza, figura e clownerie. Quattro serate offerte gratuitamente al pubblico. Difficile compito per la Giuria, presieduta da Renata Molinari, quello di scegliere l'opera vincitrice del Concorso

Finalisti Teatro LA BAMBINA CON LA PELLICCIA
di anoressia si può guarire

di Eleonora D'Urso e Federica Bognetti
con Federica Bognetti
regia Eleonora D'Urso e Federica Bognetti
disegno luci Claudine Castay
produzione CompagniaVerandaRabbit (Milano)

"Stavo morendo. E nessuno se ne accorgeva, neanche io. Ero troppo impegnata a far finta di vivere."
Un susseguirsi di azioni e accadimenti che arricchiscono il lavoro di immagini tanto poetiche quanto profondamente dolorose, tanto comiche quanto sorprendentemente magiche.
Una porta socchiusa su una vita che stava per coincidere con la morte, uno sguardo presente sulla storia di una donna che ha scelto di guarire, fidandosi di chi ha voluto e saputo ascoltarla e prima ancora fidandosi di se stessa. (Eleonora D'Urso).
"La bambina con la pelliccia - di anoressia si può guarire" è l'intenso spettacolo che nasce dalla collaborazione tra Eleonora D'Urso e Federica Bognetti, che hanno scritto il testo ispirandosi liberamente al libro autobiografico "Tutto il pane del mondo" di Fabiola De Clercq, Presidente e Fondatrice dell'ABA, associazione per lo studio e la ricerca sull'anoressia, bulimia e l'obesità.
"La bambina con la pelliccia - scrive Eleonora D'Urso - affronta la problematica del sintomo anoressico-bulimico con la chiara volontà di mettere il pubblico in una posizione di ascolto e attenzione costante.
Abbiamo tessuto una griglia drammaturgica che rielabora i fatti narrati nel libro, pur conservandone il senso e il valore profondo.
La protagonista della nostra storia è incinta di tre mesi, e lo dichiara fin dall'inizio, intessendo un dialogo realistico con la propria pancia-bimbo.
La pancia-bimbo esprime in modo dirompente tutta la forza di una vita che cresce, dove prima c'era un vuoto incolmabile; uno stato che nascondeva una silenziosa richiesta d'aiuto, un bisogno d'affetto e d'attenzione messo a tacere dai crampi della fame o da quantità smisurate di cibo immediatamente rimosse. Attraverso un susseguirsi d'immagini, ricordi e memorie, la nostra protagonista rivive la sua adolescenza, il trauma dell'inaspettato cambiamento del proprio corpo, la relazione con una madre assente, l'abuso subito a nove anni, la perdita del padre, il calvario del sintomo, il tutto narrato e rivissuto dalla sua condizione presente di mamma, di donna che ha scelto la vita rinascendo in se stessa.
Un monologo a più voci, dove il ricordo diventa realtà, dove i protagonisti rivivono sul palcoscenico, secondo un'idea di gioco teatrale: basta allora un movimento d'anca per diventare Jennifer, la ragazzina perfetta conosciuta durante l'adolescenza; un cappello, per far apparire una madre assente, i cui occhi non si vedranno mai; un completo da uomo, per trasformarsi nel proprio stesso abusante".
Un lavoro pensato e realizzato in nome di una essenzialità che si ritrova non solo nell'uso della parola, ma anche nella scelta di una scenografia semplice: un lavandino, una poltrona, una sedia, e pochi oggetti sparsi.
Federica Bognetti, interprete di tutti i personaggi, dà sfogo al conflitto interiore della protagonista, le cui paure e bisogni che si fanno verità la spingono a chiedere "Aiuto!".
Federica scrive: "Eleonora ed io non abbiamo mai pensato di dare una risposta unica e assoluta ad una sofferenza come quella del sintomo anoressico bulimico.
Non volevamo parlare di un sintomo, ma della persona che per molteplici ragioni aveva scelto la stampella del sintomo, paradossalmente, per cercare di vivere.
Abbiamo scelto di raccontare la storia di una donna che, a seguito di una vita travagliata, è riuscita infine ad amarsi e rispettarsi, a superare la gabbia che lentamente la uccideva. Una storia che può essere guardata da tante altre donne, e dare speranza."

RAGAZZA SERIA CONOSCEREBBE UOMO SOLO MAX 70 ENNE
Spettacolo tragicomico di e con Carla Carucci
Regia di Ian Algie e Carla Carucci (Torino)

"35enne, romantico, che guarda dentro le persone, aspetta di finire tra le braccia di una donna capace di sorprenderlo. Desidera un futuro insieme. Astenersi rumene e perditempo."
Questa la speranza di Rosi: un amore per la vita. Ma lui, Raimondo, non arriverà mai ed entrerà a far parte della lunga lista degli appuntamenti al buio ai quali nessuno si è presentato.
Rosi sprofonderà nella tristezza, ma troverà il modo di sublimarla, vendicandosi sui ritagli degli annunci matrimoniali conservati per anni nella sua inseparabile borsetta.
Un sorprendente finale ridarà a Rosi la speranza nella vita e nell'amore. Ma per quanto tempo?
Carla Carucci è Rosi, la protagonista in cerca di un compagno per la vita, capace di strappare risate e sorrisi, a volte un po' amari, tanto comica quanto commovente.
L'attrice e autrice affronta con ironia il tema degli annunci matrimoniali e più in profondità quello della solitudine, con uno spettacolo dalla spiccata verve comica che attraversa la tecnica del clown teatrale, l'animazione di oggetti e di burattini non convenzionali.
Per l'occasione si è avvalsa della consulenza registica di Ian Algie, che da anni porta avanti un lavoro sul metodo clown. Carla Carucci si auto-presenta così: "Ispirandomi a zio Buster, utilizzo le tecniche del clown teatrale e dell'object trouvèe, inciampando in una comicità d'altri tempi. Sulla mia formazione posso solo dire che, dopo aver assaggiato numerosi generi e modi di far teatro con registi conosciuti e sconosciuti - Marco Martinelli, Marco Baliani, Enrique Vargas, Massimiliano Martines e ancora qualcun altro - sono caduta nel mondo del clown. I miei maestri sono Jean Mening, Ian Algie, Pierre Byland, Philip Radice e soprattutto Buster Keaton, Charlie Chaplin e i Fratelli Marx. Adesso vivo a Torino e mi guadagno il pane lavorando in strada e portando in giro il mio spettacolo".
Nella personalissima rassegna stampa dell'artista, leggiamo:
"Dimenticate i Monologhi della vagina, dimenticate Giorni felici: la nuova frontiera del teatro al femminile si chiama Ragazza seria conoscerebbe uomo solo max 70enne. Carla Carucci è riuscita nella difficile impresa di indagare la moderna condizione femminile con garbo e semplicità, parlando di solitudine e squallore senza scivolare nel patetico, facendo ridere e sorridere."
Marco Bianchini.
"Era da tempo che non si vedeva a teatro una rappresentazione così efficace dell'animo femminile: Carla Carucci riesce là dove molti hanno fallito, mostrandoci una donna moderna lontano dagli stereotipi e dai pregiudizi."
Umberto Meco.
"Se la mia opera prima fosse stata anche lontanamente assimilabile a Ragazza seria conoscerebbe uomo solo max 70 enne, avrei ottenuto il Nobel molto prima."
Harold Tinter.
"È stata dura ottenere la parte ma finalmente potrò cimentarmi con un personaggio alla mia altezza. Non vedo l'ora di portarlo in scena; mi dicono che la traduzione inglese è quasi pronta."
Nicole Kitman.
"Carla Carucci? L'ho creata io!"
Dio.

UNA GIORNATA MOLTO, MOLTO PARTICOLARE
Kammerspiel Psiconautico

di e con Emanuela Filippelli
regia Roberto Ruggieri
produzione C.U.T. Perugia

"(.) c'è davvero un luogo interno, dentro di noi, esattamente al centro di noi, ove tutto va a finire, da dove proviene tutto di noi, e dove non sappiamo che cosa vi accada." Roberto Ruggieri.
"Scusi? Non riesco a respirare. Allora, perché io non riesco a respirare? Io mi sento strana, molto strana, come essere in una giornata molto, molto particolare, sento qualcosa nella pancia. Sono una cieca oppure sono una cieca che vede? Sono precipitata in un abisso senza tempo. Io non voglio dormire, io voglio danzare. Prego, figuratevi, continuate, fate finta che io non ci sono. Io esisto per assenza, sono come il vuoto."
Queste alcune delle parole di apertura dello spettacolo, che il regista definisce "dramma statico", in cui le domande sull'esistenza, sul mistero della vita e della morte sono più delle risposte.
La protagonista, l'attrice Emanuela Filippelli, è una fanciulla che veglia immobile se stessa, prima di dissolversi all'alba. Si appresta a vivere quando è alla fine.
Vive lo spazio d'una notte e per credersi reale è obbligata a parlare e a raccontarsi. Parla di verità occulte per cercare di evadere, per dimostrare d'essere viva, per resistere al Destino.
Il regista Roberto Ruggieri racconta così il percorso creativo ed il pensiero filosofico che sottende allo spettacolo:
"So che, seguendo percorsi "psiconautici" com'è mia specifica e consolidata prassi, ci si deve abbandonare "serendipitamente" all'ignoto ed enigmatico corso degli eventi, lasciandosi guidare dallo spettacolo nel suo esplicarsi, dai segnali evanescenti emanati dalla sua anima.
"Serendipità" è il termine col quale Eugenio Barba definisce la tecnica di trovare ciò che non si cerca. Per me è parte integrante della "psiconautica", ha a che fare con l'integrità dell'individuo.
Una performance vive grazie a molte radici, alcune visibili, altre ignote, a volte esse si occultano enigmaticamente anche agli occhi dello stesso soggetto agente e, accompagnandolo, in forma di misteriose intuizioni, durante tutto il percorso creativo, tracciano imperscrutabilmente il suo per molti versi occulto e mistico viaggio. Potrei dire che ci siamo misurati con il nostro tedio, con il male di vivere, ostinati a voler comprendere in modo assolutamente puro la ragione intima e occulta delle cose, fino all'ultimo, e oltre, consapevoli dell'impossibilità di cogliere il senso divino della vita, con la nostra ragione che vuol acchiappare le misteriose ombre della vita, mentre ci trafigge di pensieri.
Nel nostro "dramma statico" una fanciulla veglia immobile se stessa, prima di dissolversi all'alba (.) Vive lo spazio d'una notte e per credersi reale è obbligata a parlare e a raccontarsi. La nostra sfida: creare e proporre un improponibile e improbabile 'dramma statico' attraverso un percorso di conoscenza, gnostico mi verrebbe da dire, in quanto non solo mentale, ma d'integrità, davanti a testimoni veglianti (i 'pisciaturi').
Questo è diventato l'esile filo narrativo che ci ha guidato nel buio, dall'alto: la nostra storia a posteriori. Ci siamo lasciati guidare nelle nostre esplorazioni psiconautiche dalla parte rettile e limbica del cervello, come cercando un oggetto nascosto e ignoto con gesti metafisici.
Si è andata così definendo la partitura. Sulle azioni organiche e personali di Emanuela si sono andati inserendo segnali e indizi emanati dai miei 'buchi neri'.
In questo senso si può dire, con Pessoa, che "siamo stati recitati" da noi stessi, come se i pensieri ci venissero suggeriti di volta in volta, "schiavi della molteplicità di noi stessi", pur consapevoli che moriremo ammalati per non aver saputo esprimerci (.) Vivere è non pensare.
L'uomo completo è l'uomo che si ignora. Approfondendoci, ci siamo moltiplicati. Abbiamo finito per sognare i nostri stessi sogni, provando ad "abdicare a noi stessi", trasformandoci in letteratura, inventandoci i compagni spirituali, scrivendo con l'anima "come se fosse inchiostro", non fingendo d'essere argonauti della sensibilità estenuata, ma tentando di "comunicare, falsi pontefici, con l'Altro Mondo di noi stessi", cercando di decifrare l'ineffabile enigma della vita, gravido di significato, cercando di diradare un po' della nebbiosa confusione che avvolge, credo, il Destino di tutti noi, fra anime e stelle, attraverso la foresta delle paure (.) C'è davvero un luogo interno, dentro di noi, esattamente al centro di noi, ove tutto va a finire, da dove proviene tutto di noi, e dove non sappiamo che cosa vi accada.
Questo è il vero seme delle nostre ricerche, è la vera sorgente che ci ha orientato nel nostro viaggio, mossi dalla brezza della ricerca della nostra ombra." Roberto Ruggieri

FABULA ALCESTI
di e con Simona Arrighi, Alessandra Bedino, Sandra Garuglieri
regia Arrighi, Bedino, Garuglieri
drammaturgia originale da Euripide, R. M. Rilke, M. Yourcenar
produzione Compagnia Attodue (Sesto Fiorentino)

C'era una volta una giovane e bella principessa, Alcesti, che andò sposa a un re che non voleva morire, Admeto.
Prima che Euripide lo trasformasse in una tragedia, quello di Alcesti era già un motivo folklorico assai diffuso nell'area euroasiatica con molte varianti, tutte destinate all'esaltazione del legame matrimoniale.
E' il motivo della sposa che si offre di morire al posto del marito, condannato da un crudele destino a morte prematura, a meno che non trovi qualcuno disposto, appunto, a prendere il suo posto.
In quasi tutte le versioni, però, la vicenda ha un lieto fine: la divinità premia la virtù del sacrificio per amore, restituendo l'eroina alla sua vita di sposa.
Nel dramma di Euripide, a premiare il sacrificio di Alcesti, morta al posto del marito Admeto, interviene un semidio, Ercole, che, in segno di riconoscenza per l'ospitalità ricevuta nella reggia, affronta Thanatos e riporta Alcesti all'amato sposo.
Nella riscrittura della Yourcenar (ispirata ai Misteri medievali) questo momento cruciale viene rappresentato in scena come un vero e proprio "duello metafisico" tra Ercole e Thanatos: solo colui che non ha paura della morte può sconfiggere la morte.
Tre attrici, attratte dalla tragedia di Alcesti, si scoprono incapaci di rappresentarla. Tre donne si specchiano nel mito e, almeno razionalmente, non si riconoscono più.
Non solo le varianti del mito, infatti, moltiplicano gli interrogativi e le interpretazioni possibili, ma la stessa vita contemporanea sembra impedirci di aderire fino in fondo alla "fabula Alcesti".
E' il nostro rapporto con la morte a essere in discussione, è la nostra condizione di "sottoproletari dello spirito" inchiodati a un "eterno presente" a impedirci uno sguardo verso l'eternità e la "resurrezione".
In uno spazio scenico volutamente ristretto e che si va chiudendo sempre più, che diventa tomba, serra da coltivazione intensiva o teca da laboratorio, ogni rappresentazione "alta" dell'amore si fa impossibile, ogni proiezione di se stessi verso l'esterno sembra preclusa. Eppure la potenza del mito rimane intatta, proprio perché getta sul nostro presente la consapevolezza di un vuoto, di una mancanza, di un'ombra.
E' stato chiaro fin dal principio che nello spettacolo sarebbero esistiti più livelli: quello della rappresentazione della fabula ridotta all'essenziale, quello di una riflessione personale sul contenuto del mito stesso e, infine, a fare da trait d'union, il tema dell'impossibilità/pericolosità di "portarsi in scena" come attrici e registe.
Abbiamo scelto di praticare "a vista" tutti e tre i livelli, intrecciandoli, facendoli scontrare, contaminando la tragedia con il quotidiano, slittando dal drammatico al grottesco con leggerezza e autoironia, qualità che ci riconosciamo e che ci sembrano indispensabili nel teatro di questi giorni.
- Ma di cosa stiamo parlando?
- D'amore. Parliamo sempre d'amore.
Chi è Alcesti? Un'eroina romantica? Un'esaltata? Una "prima donna" che vuole la scena tutta per sé? Non pacifica il mito di Alcesti, non riconcilia con l'amore, anzi mette il dito nella piaga sempre fresca della relazione tra i due sessi, di quell'amore corrisposto "tanto simile alla morte".
In scena si instaura una sorta di "corpo a corpo" con il personaggio di Alcesti, con ciò che ancora oggi suscita in noi donne: attrazione, repulsione, sospetto, nostalgia.
Perché non esiste neutralità quando si parla d'amore. Il nostro non è uno spettacolo femminista, ma profondamente femminile sì. Perché è Alcesti a stare al centro della scena, gli altri personaggi non esistono, sono soltanto suoi emissari (Admeto, le donne del coro) o suoi doppi.
Perché è la sua morte a fare da calamita: il suo sacrificio è una sfida, sia teatrale che di senso. Sacrificio di sé come massima affermazione d'amore o "dominio attraverso la resa"?
Offerta o ricatto? Sicuramente "scena madre", a cui nessuna attrice vuole rinunciare.
Parallela alla riflessione sull'amore corre quella sul senso della morte oggi, sulla sua negazione/rimozione, sul rifiuto del concetto di eternità ad esso collegato.
Su questo tema ci hanno guidato alcune pagine illuminanti di Zygmunt Baumann, pensatore e sociologo di straordinaria lucidità nel disegnare la mappa della nostra vita "liquida".
Lo spettacolo si chiude con le sue parole:
"Nel nostro eterno presente l'eternità è messa al bando. Ciò che conta è la velocità non la durata. Nel nostro eterno presente non devo più aspettare, sacrificarmi, immolarmi. Basta cambiare. Continuamente, ossessivamente, compulsivamente."
Crediamo che stare in scena, oggi più che mai, comporti dei "rischi", di senso innanzitutto, ma anche fisici, insomma che sia un "gioco pericoloso", un esercizio di resistenza.
E' per questo che il nostro spazio scenico viene ripetutamente reso scivoloso, pericoloso, al limite dell'impraticabilità.
Più che rappresentare, si tenta di farlo. Più che recitare, si prova a ricordarsi come si fa... Ma recitare è ancora possibile? E con quale linguaggio? E poi, è possibile raccontare l'amore? E la morte? E qual è la vera differenza? Se stare in scena è difficile, abbiamo bisogno di poterne "uscire", di un luogo da cui partire e a cui ritornare, per noi sono i corridoi che circondano lo spazio scenico.
In questo livello accadono cose tangenziali rispetto alla fabula, "accade" la nostra vita.

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In alto i finalisti del Concorso Italia Teatro


Gabriella Foletto - Membro di Giuria Concorso Italia Teatro
(25 settembre 2011)



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